LA CICALA E LA FORMICA
testo riadattato da Giulia Sperini
Era una caldissima giornata d’estate quando una cicala molto allegra se ne stava appollaiata a cantare sulla foglia di un grande albero. Mentre lei cantava, ai piedi dell’albero tante formichine, affaticate per il grande caldo, trasportavano dei grossi chicchi di grano. La cicala, quando le vide passare, interruppe il suo canto e chiese a una di loro perché si stessero dedicando al trasporto del grano nonostante il grande caldo. Quindi la invitò, insieme alle sue amiche, a cantare con lei. La formica la guardò e, con tono serio, le disse che non potevano né fermarsi né cantare perché stavano preparando le provviste per l’inverno, quando la neve, bianca e fredda, avrebbe coperto la terra e non ci sarebbe stato più nulla da mangiare. Poi consigliò alla cicala di fare lo stesso. La cicala sorrise e non ascoltò le parole della formichina, ma continuò a cantare beata. Intanto i giorni passavano, la cicala cantava e le formiche lavoravano. L’estate finì e arrivò l’autunno. Gli alberi cominciarono a perdere le foglie e l’aria cominciò a farsi fresca. Poi le foglie caddero tutte e l’aria divenne gelida. Era arrivato l’inverno. La cicala si ritrovo sul terreno coperto dalla neve e ovunque girasse non riusciva a trovare nulla da mangiare. Niente di niente. Camminando, triste e affamata, si ritrovò di fronte a una porticina. Bussò. Toc toc. Dapprima diede due timidi tocchi, poi, vedendo che nessuno le apriva, bussò con disperazione. Toc toc toc toc toc. Fu allora che la porta si aprì. La cicala si trovò di fronte la formichina con cui aveva parlato l’estate passata e dietro la formichina c’era un’enorme stanza con tantissimi chicchi di grano dorato. La cicala, affamata, non credeva ai suoi occhi e chiese qualcuno di quei chicchi alla formica. La formica la guardò, poi con tono serio le domandò cosa avesse fatto durante l’estate mentre lei e le sue amiche formichine trasportavano, affaticandosi, il grano per l’inverno. La cicala, sempre più disperata, le ricordò che aveva cantato. Allora la formica di tutta risposta le disse che per lei era arrivato il momento di ballare. La cicala aveva capito: chi non fa nulla si ritrova con nulla in mano. E non ricevette nemmeno in chicco di grano dorato.
IL TOPO DI CAMPAGNA E IL TOPO DI CITTÀ
testo riadattato da Giulia Sperini
Un topo stanco della vita caotica della città nella quale viveva decise di passare qualche giorno in campagna. Lì fece conoscenza con un topo del posto. Insieme corsero per i campi, giocarono e mangiarono ogni cosa offerta loro dalla terra. Quando fu il momento di andare via, il topo di città, felice per i giorni allegri che aveva passato, invitò il topo di campagna a fargli visita. All’arrivo in città, il topo di campagna si meravigliò per la grande confusione che animava le strade, ma ancora di più si meravigliò nel vedere la lussuosa casa in cui viveva il suo amico. Ma a lasciarlo senza parole fu la dispensa di quella casa, era piena zeppa di ogni ben di Dio: salami, prosciutti, formaggi, marmellate. Fu così che quando il topo di città lo invitò a mangiare quello che voleva, il topo di campagna non ci pensò due volte: si sistemò su un tappo di sughero e iniziò a cibarsi di quelle leccornie. Non era passato molto tempo, quando dei passi interruppero il pasto. La padrona di casa era scesa nella dispensa. I due topi riuscirono a nascondersi e per un soffio non furono colti in flagrante. Quando la donna andò via, il topo di città invitò il topo di campagna ad assaggiare del prelibatissimo miele. Il topo di campagna lo trovò una squisitezza. Ma quando aveva da poco iniziato a gustarlo, vide da lontano degli occhi gialli che lo fissavano: era un gatto. I due topi sferrarono una corsa che li lasciò quasi senza fiato e riuscirono a sfuggire gli artigli del felino, nascondendosi in un piccolo buco della parete. Nel frattempo, il gatto, si lasciò distrarre dalle tante ghiottonerie che riempivano la dispensa, fu a quel punto che il topo di campagna lasciò, svelto, il nascondiglio e filò dritto dritto in campagna, aveva infatti capito che era meglio mangiare anche solo pochi frutti, ma vivere in libertà piuttosto che mangiare tante prelibatezze, ma senza essere libero.
I VESTITI NUOVI DELL’IMPERATORE
testo riadattato da Giulia Sperini
C’era una volta un imperatore assai vanitoso che amava comprare stoffe pregiate per farsi cucire abiti meravigliosi. Due truffatori, che erano venuti a conoscenza della sua vanità, si spacciarono allora per due famosi sarti in possesso di una stoffa magica. Quando l’imperatore lo seppe, li fece chiamare subito a palazzo. I due imbroglioni giunsero a corte con tantissime stoffe colorate, e al cospetto dell’imperatore non fecero altro che vantare il suo aggraziato portamento e il suo ottimo gusto nella scelta dei tessuti. L’imperatore ne fu così tanto lusingato che quasi gli nacque una coda come quella dei pavoni che ne mostrano lo splendore aprendola a ruota. I due truffatori avevano ottenuto la fiducia dell’imperatore e così, quando lui chiese loro informazioni sulla stoffa magica, non fu difficile fargli credere che fosse una stoffa visibile solo agli intelligenti. L’imperatore ne fu entusiasta e commissionò ai due sarti impostori la realizzazione di un vestito proprio con quella stoffa magica, l’avrebbe indossato in occasione della festa per il suo compleanno. E diede loro tantissimo denaro. Più i giorni passavano più l’imperatore era curioso di sapere come fosse l’abito che gli stavano cucendo. Mandò, allora, il suo primo ministro il quale, giunto nella bottega dei due impostori, non vide nulla sul manichino intorno al quale i due sarti si muovevano fingendo di cucire, ma non volendo passare per sciocco, disse all’imperatore che il vestito era così bello da non riuscire a descriverlo. L’imperatore non fu soddisfatto da quelle parole e allora mandò sua moglie in persona la quale, non avendo visto nulla e non volendo essere considerata sciocca, disse che l’abito era il più bello che lei avesse mai visto. Rincuorato dalle parole della moglie, l’imperatore era sempre più impaziente di indossare il nuovo vestito, così quando fu il giorno del suo compleanno e i sarti truffatori giunsero a palazzo, ne fu felicissimo. Ma la sua felicità durò poco perché non appena i due imbroglioni fecero finta di mostrargli il vestito, lui non vide nulla! E più i sarti truffatori fingevano di prendere tra le mani l’abito descrivendone consistenza e colori, più l’imperatore si convinceva di essere uno sciocco. Però fece finta di niente, anzi elogiò il lavoro dei due finti sarti e li assecondò mentre fingevano di vestirlo. Fu così che l’imperatore uscì dal palazzo con addosso solo le mutande e partecipò alla sfilata organizzata in suo onore. Tutti i sudditi lo vedevano in mutande, ma nessuno osava dirlo per timore di essere considerato sciocco. Fu un bambino a gridare che l’imperatore aveva addosso solo le mutande. E allora tutti si resero conto della verità. Mentre l’imperatore, per la vergogna, continuò a sfilare come se niente fosse.
IL LUPO, MAMMA CAPRA E I SETTE CAPRETTI
testo riadattato da Giulia Sperini
C’erano una volta mamma capra e i suoi sette capretti che vivevano felici in una casetta nel bosco. Una mattina, mamma capra si alzò molto presto per andare al mercato, ma prima di uscire raccomandò ai suoi figlioletti di tenere la porta ben chiusa perché un lupo famelico con la voce cupa e le zampe nerissime girava nei paraggi. I caprettini la rassicurarono e lei si allontanò tranquilla. Ma il pericolo era in agguato: il lupo, nascosto dietro a un albero e travestito da massaia, aveva visto tutta la scena, e così, non appena mamma capra si fu allontanata, lui si sbarazzò di gonna, fazzoletto e cestino e si precipitò verso la casa dei sette capretti. Il lupo bussò alla porta con grande impeto e quando i sette capretti chiesero chi fosse, lui rispose che era la loro mamma. I sette capretti non ebbero dubbi nel capire che si trattava del lupo e gli dissero che la loro mamma aveva una voce dolcissima, mentre la sua era cupa e brutta. Il lupo non si diede per vinto e giunto in una pasticceria divorò una torta intera al miele. Quindi tornò dai sette capretti, bussò alla porta della loro casa e, imitandone la voce, disse che era la loro mamma. Dopo tutto il miele mangiato, la voce del lupo si era fatta davvero molto dolce, ma i capretti, per essere certi che si trattasse veramente della loro mamma, chiesero al lupo di mostrare loro una delle sue zampe. Quando il lupo la allungò, i capretti gli dissero di andare subito via perché le zampe della loro mamma erano di un bianco candido. Il lupo, sempre più affamato, entrò in un mulino e ficcò le sue zampe anteriori in un sacco di farina bianchissima, quindi tornò di corsa dai sette capretti, bussò alla porta della loro casa, imitò la voce della loro mamma e mostrò una delle sue zampe imbiancate. I capretti si lasciarono convincere e aprirono la porta. Quando videro il lupo, spaventati, si nascosero dove meglio potevano, ma il lupo riuscì a scovarli e lì divorò tutti, tranne uno che si era nascosto meglio degli altri. Poi il lupo scappò via. Dopo poco tempo tornò mamma capra e capì subito cos’era successo. Disperata chiamò i suoi figlioletti, ma uno solo rispose, uscendo dal suo nascondiglio. Il capretto le raccontò tutto e insieme uscirono alla ricerca del lupo. Non avevano percorso molta strada, quando lo videro che dormiva. Allora, mamma capra, mandò il figlioletto a prendere forbice, ago e filo: con la forbice tagliò la grossa pancia del lupo dalla quale uscirono i sei capretti sani e salvi, e insieme a loro riempì il pancione con dei sassi. Poi lo cucì con l’ago e il filo. Quindi si nascosero. Quando il lupo si svegliò, sentì la sua grossa pancia molto pesante e pensando di non avere digerito bene, si avvicinò a un fiume per bere. Ma il peso delle pietre non gli consentì di mantenere l’equilibrio e lo fece cadere nell’acqua che lo portò via. Mamma capra e i sette capretti esultarono di gioia: finalmente erano liberi.